“Il bisogno di potere è radicato nell’essere umano”. A tu per tu con Fausto Russo Alesi

Fausto Russo Alesi è diventato, soprattutto negli ultimi anni, uno dei pilastri del cinema di Marco Bellocchio. Attore e regista principalmente di teatro (vincitore di tre premi Ubu), esordisce per il regista piacentino nel 2009 con Vincere. Da allora ritorna sui set bellocchiani per altre cinque pellicole: Sangue del mio sangue, Fai bei sogni, Il Traditore (nei panni di Giovanni Falcone), Esterno Notte (nel ruolo di Francesco Cossiga) e, quest’anno, in Rapito dove interpreta Salomone Mortara.

“Fausto, che uomo è per te Momolo?”

“Dunque, per me Momolo è, inanzitutto un uomo; al di là di qualsiasi collocazione storica, politica e religiosa. E’ un essere umano che si ritrova a vivere una tragedia, un’esperienza drammatica, ingiusta, terribile e, purtroppo, storicamente reale. È stato vittima di un abuso perché privato di un diritto essenziale dell’essere umano: quello di poter crescere il proprio figlio in quanto padre. Nello specifico, Momo Mortara, per quello che sappiamo dalle testimonianze dell’epoca e per come lo ha restituito alla contemporaneità Marco Bellocchio nel film, è un uomo mite. Un uomo reattivo che cercherà in tutti i modi di riavere il figlio e che ha lottato per tutta la sua vita contro questa ossessione affidandosi, probabilmente, alle parti più profonde del suo credo religioso; ma anche alle armi pacifiche del dialogo, della pazienza e della prudenza. In onore di qualche cosa di più grande che è il figlio, Momolo è disposto a tutto; anche a scendere a compromessi ma non per debolezza, per amore. Effettivamente, poi, non lo farà; non scenderà a compromessi ma prenderà comunque in considerazione la possibilità di mettere da parte qualsiasi questione o fondamento religioso e politico in onore di qualche cosa di più grande che è il suo amore per il figlio. Ciò è molto commovente, qualcosa che per me apre le porte alla risoluzione del conflitto che fa parte del credo ebraico. E’ una cosa che mi ha commosso e in cui credo molto. “

“Che cosa hai sentito di dover restituire a Momolo e come ti sei preparato? Parlavi, ad esempio, di questo credo ebraico… è una cosa di cui sei a conoscenza o avete lavorato in maniera particolare con la Comunità Ebraica di Roma?”

“Mi sono preparato ovviamente studiando il caso Mortara. Ero a conoscenza di altri casi come quello che in quel periodo accadevano ma il caso Mortara non lo conoscevo nello specifico e quindi mi sono documentato sulla loro storia. Per me è sempre fondamentale l’incontro con la sceneggiatura perché è la base su cui costruire tutto: il taglio e le scelte fatte al suo interno. Ovviamente, in questo è essenziale anche il rapporto con un maestro, regista e artista meraviglioso come Marco Bellocchio che ogni volta ci mette nella condizione di relazionarci a tematiche forti; temi che affronta nei suoi film in maniera il più possibile aperta; cercando di scavare dentro le maglie, le contraddizioni e la complessità degli esseri umani, ma anche cercando di abitare le zone più misteriose e più sospese, quelle in cui l’essere umano si ritrova di fronte a dei grandi interrogativi e a dei grandi dolori in cui le possibilità di reazione sono molteplici. Questo è un aspetto fondamentale del nostro modo di stare dentro al film. Poi c’è stata tutta una preparazione con la comunità ebraica. Siamo stati seguiti da un consulente che era sempre con noi; ciò era necessario intanto per conoscere una cultura che non è la nostra e poi per cercare di restituire tutte quelle ritualità e quei momenti di vita quotidiana che nel film ci sono e che andavano mostrati. Siamo stati guidati dalle varie comunità ebraiche: quella di Torino, di Bologna, di Milano e, ovviamente di Roma perché era necessario cercare il più possibile di provare a restituire ciò che la sceneggiatura e questa storia richiedevano. Certo, poi, come dire, le questioni di cui si parla sono certamente complesse. Rapito è un film che mette in campo la complessità di questioni religiose e politiche, ma non dobbiamo dimenticarci che dietro tutto ciò ci sono delle persone. Quello che abbiamo cercato di fare è stato arrivare al cuore dell’essere umano. Marco Bellocchio mi ha subito instradato verso una linea del film ben definita. Ogni personaggio racconta una parte della vicenda. C’è stato un lungo periodo di preparazione con Barbara Ronchi che interpreta mia moglie e con i “nostri figli” nel cercare di ricostruire l’intimità di questa famiglia.”

“In un’intervista hai detto che ti piace molto dialogare con con i tuoi personaggi per capirne l’universitalità e per renderli vivi. Che cosa vi siete detti tu e Momolo quando vi siete incontrati?”

“Io e Momolo quando ci siamo incontrati ci siamo detti che una vicenda tragica che ti mette in una condizione di debolezza può accadere a tutti , quindi bisogna provare il più possibile a mettersi nei panni degli altri proprio quando si è in un’altra posizione. Poi ci siamo detti che l’identità di ogni persona è fondamentale perché lì è radicata la tua storia, le tue radici, il tuo vivere quotidiano, ciò che ti sostiene; ma anche il tuo sguardo verso il futuro, le tue speranze verso il domani. Bisogna quindi riuscire a confrontarsi senza mettersi mai in una situazione di potere rispetto all’altro, avere il rispetto di essere sempre alla pari, provare a capirsi e a rispettarsi nelle differenze, questo è fondamentale.”

Rapito è una storia ambientata in Italia che ha però suscitato l’interesse e il coinvolgimento internazionale perché quelle raccontate sono tematiche che non conoscono confini e barriere. Adesso, Rapito, si prepara a uscire a breve negli Stati Uniti. Quale credi che sia l’universitalità di questa storia al giorno d’oggi? Secondo te siamo ancora in balìa di alcuni poteri temporali, spirituali, politici che la possono rendere attuale? Che cosa c’è, secondo te, della società moderna all’interno del film?

” A mio parere il bisogno di potere è radicato dentro l’essere umano. Il bisogno di potere non è qualcosa che è legato al passato, è qualcosa che è parte di noi, è qualcosa che abita in noi e che ci circonda. La storia è assolutamente universale e risuona nel presente perché l’uomo, sebbene non sia più il 1858 sopratutto da un punto di vista religioso, tendendo a ripetere gli stessi errori, è ancora schiavo del bisgno di prevalere sull’altro. Rapito si muove nella complessità di questo, dei conflitti tra gli esseri umani. Credo che un film, se riesce a commuovere e a emozionare, a me è successo come spettatore, allora è un film che ha la potenza, attraverso delle scene veramente straordinarie di Marco Bellocchio, di riuscire a farsi motore di un’idea di possibilità di dialogo. Penso, ad esempio, a quella scena bellissima del Cristo che scende dalla Croce. Credo che sia un film che è giusto che esca dai confini dell’Italia e che incontri il mondo intero. Infatti, come dicevamo prima, questa storia suscitò l’interesse internazionale. Tutti si mossero in favore di questa ingiustizia. Un caso piccolo che riguarda una famiglia; ma che allo stesso tempo riesce ad andare a raccontare una condizione universale. Ecco, questo riesce a fare Marco Bellocchio: da un caso che riguarda una famiglia riesce a raccontare una passione universale.”

“Dicevamo prima che lavorare con il maestro Bellocchio significa lavorare su tematiche forti che poi mettono l’attore, ma anche proprio lo stesso regista, in discussione. Credi che ci sia questo alla base del sodalizio che ha con alcuni attori, ad esempio con te, con Paolo Pierobon, con Barbara Ronchi,…Che cosa mi puoi raccontare di questa esperienza che ormai perdura da diverse pellicole con il maestro Bellocchio?” 

“Io mi reputo sempre molto fortunato di essere coinvolto nei suoi progetti, nelle sue opere. Per me è sempre un onore. Credo che Marco Bellocchio sia un regista che ama la profondità e l’approfondimento e quindi la possibilità, quando si riesce a trovare un terreno di dialogo comune da poter approfondire film dopo film, di poter anche lavorare all’interno di una famiglia cinematografica. La storia della cinematografia di Bellocchio si è sempre mossa in questa direzione, per cui per me è un modo assolutamente unico di lavorare, intanto per il grande artista che è, ma anche per la grande libertà che lui ha nell’affrontare il cinema. E questa libertà è una libertà che abita anche nel rapporto con l’attore. E’ bellissimo sentirsi seguiti dentro il film da Marco Bellocchio in questo dialogo segreto e misterioso che spesso passa attraverso poche parole ma che, grazie a un’intesa unica, cerca di orientarsi in maniera millimetrica dentro il grande mondo che lui riesce a ricostruire. Sono veramente grato di avere la possibilità di affrontare dei personaggi ricchi, complessi e così diversi l’uno dall’altro, di rendermi portatore di qualcosa che risuona nel nostro presente e sono felice di avere fatto ancora un grande viaggio con Simone Gattoni e la Kavac Film e con Beppe Caschetto e IBC Movie “

“In questi mesi avete lavorato molto con Rapito, nel senso che siete partiti da Cannes e poi recentemente l’avete portato anche a Bobbio. C’è stato un incontro particolare con il pubblico, qualcosa che vi ha colpiti particolarmente?” 

“E’ stata una promozione veramente straordinaria. È stato meraviglioso esserci perché credo che sia fondamentale, oggi più che mai, seguire i film e poterne parlare. È un modo per continuare ad abitare il film e dargli una vita che nasce proprio da come viene recepito, dalle reazioni che fa scaturire nello spettatore. Uno spettatore quando vi legge qualche cosa a cui tu magari non avevi pensato, ti fa approfondire ancora di più il lavoro che hai fatto e ti traghetta verso qualcos’altro. Sono stati meravigliosi gli incontri con le comunità ebraiche, sono state serate molto sentite. Ci ha emozionato molto vedere con quanta passione e dedizione Marco Bellocchio ha fatto e continua a fare tutto questo; è proprio un grande insegnamento. “

“A Venezia è arrivato il premio Starlight come miglior attore. Ti aspettavi questo riconoscimento? Come l’hai vissuto?”

“Diciamo che è un anno veramente ricco. Un anno che è partito da Esterno Notte, dalle candidature che sono state molto emozionanti per me: ai David, ai Nastri,… e poi ci sono stati questi premi che sono arrivati inaspettatamente: prima il premio al Lamezia Film Festival, poi il premio al Festival di Ischia, lo Starlight a Venzia e, pochi giorni fa, il Premio Ritratti di Territorio. Sono stati dei riconoscimenti che mi hanno emozionato, così diversi tra di loro. Dietro un premio c’è sempre qualcuno che ha pensato a te, che ti ha guardato, che ha lavorato per riuscire a premiarti; c’è il lavoro che viene riconosciuto. E’, quindi, una grande emozione e tutto questo lo devo senz’altro ai piccoli passi, ai piccoli grandi passi fatti durante tutto il mio percorso artistico ma, lo devo in particolare a Marco Bellocchio e a questi tre grandi regali che mi ha fatto: Falcone, Cossiga e Momolo. Sono stato felicissimo di ricevere questi premi, alcuni anche in luoghi difficili dove ci vuole veramente tanta passione e dedizione perché riescano a prendere vita, e se avviene è solo grazie all’autenticità delle persone. Sono quindi onorato di averli ricevuti.”

“A Sky hai parlato di grandi incontri fondamentali per la tua evoluzione. Pensi che siano stati più gli incontri con colleghi e registi o quelli con i tuoi personaggi ad averti fatto evolvere?” 

“Tutti e due. Tutti e due. E aggiungo anche la vita e, in particolare, quella vissuta tramite i rapporti umani; ma anche il cinema, il teatro, la letteratura. Quello che sono io è parte degli incontri che ho fatto. I grandi incontri nella mia carriera mi hanno fatto diventare quello che sono oggi, sia quelli con i colleghi, sia quelli con i personaggi. Ho imparato molto da colleghi, artisti e registi coetanei come Serena Sinigaglia, dai grandi Maestri in teatro come Luca Ronconi e Marco Bellocchio al cinema a cui devo veramente moltissimo. Siamo esseri in divenire, quindi credo molto negli incontri che durano nel tempo grazie alla voglia di coltivare quella relazione.”

“Che cosa ti rimarrà del viaggio fatto con Momolo?” 

“Sicuramente ci sono delle tematiche importanti che servono, secondo me, ad accompagnarci nel nostro vivere quotidiano. Senz’altro il confrontarsi con le nostre scelte, il libero arbitrio, il restare comunque responsabile della tua libertà e di riuscire a perseguirla nonostante tutto. Penso che questo sia un grande insegnamento, anche di un maestro come Marco Bellocchio. Riconosco in ogni film che ho fatto con lui una grande autenticità, una grande sincerità, onestà e chiarezza di intenti dentro un contenitore artistico che è anche imprendibile nella sua grandiosità.”

“I film di Bellocchio sono molto teatrali e diciamo è arrivato il momento di lasciare un po’ l’intimità della sala cinematografica e andare a immagazzinare di nuovo un po’ di questa energia che richiede il teatro e che poi viene portata anche sullo schermo, attraverso film come quelli di Bellocchio. Il tuo progetto teatrale? Come è nato? Perché è nato? Perché hai scelto di dedicarti all’adattamento e alla regia de L’ arte della Commedia di Eduardo De Filippo? Da dove è nata questa esigenza? “

“Diciamo che sì, io ho bisogno di passare da una dimensione più intima, a una dimensione soprattutto dal vivo. Credo che questo bisogno sia un qualcosa di fondamentale perché una dimensione arricchisce l’altra. Credo che sia giusto per un attore poter passare da una forma di comunicazione all’altra. L’essere attore nel cuore non cambia. Il mio percorso è un percorso teatrale e questo spettacolo, che adesso andrà in tournée e che ha debuttato quest’anno al Teatro San Ferdinando di Napoli è il mio secondo incontro con Eduardo De Filippo. Il mio primo incontro è avvenuto undici anni fa con Natale in casa Cupiello e, adesso, dopo undici anni, ritorna Eduardo con l’Arte della Commedia. Il mio è anche un percorso che mi spinge a ritrovarmi, a essere motore di progetti soprattutto teatrali appunto. Quando sento che una tematica o un autore mi chiamano e sento che questa chiamata mi impone di essere motore, io mi avvio verso un progetto che, generalmente, mi accompagnerà anche per diversi anni. Questo percorso ha una gestazione molto lunga; è avvenuto con Natale in casa Cupiello, avevo il desiderio profondo di incontrare un grandissimo autore come Eduardo e ho pensato che dovevo crearmi una situazione del tutto personale per poterlo fare perché avevo bisogno di un ingresso di rottura. Non sono napoletano, dovevo conoscere la lingua; ma la lingua è un veicolo e, attraverso la sua conoscenza, ho compreso che ciò che è importante è ciò che sta sotto la superficie delle parole, sono le tematiche che racconti. Ho pensato che Natale in casa Cupiello fosse un dramma della solitudine. L’idea di portare un attore da solo in scena a raccontare le solitudini di questa famiglia mi è sembrato il mio modo di entrare dentro questo capolavoro e quindi lì c’è stato il primo incontro e dopo dieci anni avevo voglia di ritrovarmi nuovamente con questo autore che sento molto vicino così, poco prima della pandemia, ho iniziato a studiare la commedia perché è importante trovare il testo dei testi a cui poi sei agganciato profondamente. Quel che poi è veramente importante è questo: dentro quei testi ci deve essere qualcosa di me che me li fa sostenere e, durante la pandemia, ho sentito che questo testo di Eduardo,così poco rappresentato era senz’altro il mio testo dei testi. Come dicevo prima, è necessario per me trovare un aggancio profondo con i testi e questa commedia, sul ruolo degli artisti nella nostra società e sul nostro rapporto con il potere mi è sembrato che, in quel periodo così peculiare per il nostro mondo, avesse una necessità fortissima di essere raccontato. E’ un testo che non ebbe un grande successo quando debuttò nel 1964. Venne scritto da Eduardo durante la sua lunga battaglia per riuscire ad avere delle sovvenzioni per poter far nascere questo teatro meraviglioso che è il SanFerdinando. Ed è un testo che ci parla, oggi come allora. Durante la pandemia, noi artisti siamo stati improvvisamente privati della nostra identità e il pubblico è stato privato dell’ incontro dal vivo con l’arte. L’arte è la possibilità di mettersi in discussione e di insinuare il dubbio nello spettatore. Il testo di Eduardo venne censurato quasi subito così lui tornò a fare i sui grandi cavalli di battaglia accantonando La Commedia. Oggi, invece, è un testo che parla a tutti; ma che non parla solamente della questione degli attori e degli artisti. Parla dei diritti dell’essere umano, delle istanze dell’essere umano nell’essere riconosciuti nei propri diritti. Eduardo lo fa, come al solito, mettendo insieme la commedia e la tragedia. Questo adattamento è una bellissima sfida con una compagnia meravigliosa e quindi è un lavoro a cui tengo molto che girerà durante quest’anno. E’ un atto poetico e politico per il Teatro e ringrazio, in particolare, Natalia Di Iorio, Roberto Andò, la Compagnia Elledieffe e tutti i Teatri produttori.”

“Tornando per un attimo al tuo lavoro con Bellocchio, c’è un personaggio che è stato una vera e propria sfida per te? Magari per ciò che rappresenta nell’immaginario comune.”

“Con Marco Bellocchio l’asticella è sempre molto alta e le tematiche sono sempre molto forti e devi metterti in relazione con esse. I personaggi hanno tutti la particolarità di essere personaggi realmente esistiti. Momolo no, ma Falcone e Cossiga sono personaggi che sono nel notro immaginario quindi, in quel caso, la sfida è riuscire a restituire quelle caratteristiche fondamentali riconoscibili al pubblico ma, allo stesso tempo, riuscire a liberarsi anche di questo e di andare oltre il ruolo che questi personaggi hanno ricoperto; andare oltre la dimensione pubblica ed entrare nella dimensione più intima e privata e donare qualcosa: un punto di vista, o uno sguardo, dei colori, delle sensazioni, delle emozioni nuove rispetto al personaggio. Tutto ciò è necessario non perché ci sia bisogno di una novità; ma semplicemente perché sono personaggi che sono emblematici, che sono simbolici, metaforici e quindi vanno re-interpretati e, facendo questo, si mantiene vivo ciò che avevano d’importante da dirci o ciò da cui bisogna ripartire. Per quello che riguarda Momolo, invece, non è un personaggio che fa parte della nostra meoria storica ma lo è tutto ciò che il popolo ebraico ha patito perciò, la possibilità che un film ti faccia venire voglia di andare ad approfondire o a conoscere qualche cosa che magari conoscevi meno, diventa fondamentale. Con questo parlo anche dell’incontro con le nuove generazioni che ritengo importantissimo. Ogni personaggio è stato una possibilità reale di crescita. Ogni volta è stata una sfida diversa ed è giusto che sia così. Arriva un momento in cui succede di sorprenderti dentro ai ruoli e di trovare improvvisamente qualche cosa che non sapevi e non ti aspettavi, sentendoti completamente disarmato e impotente di fronte a ciò che sta succendo ecco, credo che questo sia ciò che questi personaggi mi hanno insegnato, così come lo ha fatto il rapporto con Marco Bellocchio: alzare le mani davanti a un personaggio, abbandonarsi e sparire dentro quel ruolo.”

“A Venezia mi ha colpito il momento in cui, in un’intervista, hai detto che, forse perché l’hanno studiato a scuola, hai difficoltà a convincere tua figlia più grande a vedere Il Traditore. Questo mi ha fatto riflettere su come, appunto, le nuove generazioni con cui lavoro, si leghino a ciò che portiamo anche a livello cinematografico nelle aule e di come abbiano un’ immagine di alcuni personaggi storici da cui non vogliono discostarsi…”

“Sì, questo senz’altro. Credo che in questo senso il coinvolgimento del pubblico possa servire e qui ritorniamo a noi, all’incontro col pubblico e a quello che dici sul fatto di portare il cinema e il teatro dentro le scuole portando così le storie e poi gli artisti che le interpretano. Credo che questo sia un modo molto concreto per incontrare le nuove generazioni; ma, sopratutto, per sollecitare quello che è il loro interesse e bisogno di conoscere. E’ in questi incontri che arrivano le domande più spiazzanti. A me è successo con mio figlio più piccolo mentre guarda il trailer di Rapito o un’intervista a Marco Bellocchio. Arrivano delle domande così sorprendenti da farci capire che quella loro curiosità è quel qualcosa che va coltivato. Questa possibilità di lavorare su ciò che accende invece di stare su un assopimento generale. Provare ad accendere la nuova fiamma della discussione con un’altra generazione, soprattutto nei momenti di vita in cui siamo, in realtà, culturalmente più fertili.” 

Rapito è disponibile su Amazon Prime e su Tim Vision e in uscita nelle sale americane l’11 novembre.

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