“Anche in un brutto film ci può essere un minuto di cinema”: Giacomo Giorgio tra cinema, teatro, letture, poesie, filosofia, miti, supereroi e…una statuetta dorata; perché il Destino “stabilisce il percorso, ma poi sei tu a decidere se viaggiare in business o in autostop. [Lui] ti dà la meta, tu ci metti l’attitutdine”

Giacomo Giorgio non ha bisogno di presentazioni. Potremmo elencarvi i progetti teatrali e cinematografici che lo hanno visto al lavoro prima della notorietà arrivata con il personaggio di Ciro Ricci nella serie cult Mare Fuori (tra cui The Happy Prince sotto la direzione di Rupert Everett e al fianco di Colin Firth e di Colin Morgan, il celebre Merlino della serie Merlin) o quelli che sono arrivati dopo; ma rischieremmo di diventare noiosi e didascalici perché la carriera di Giacomo Giorgio sembra aver, permettetemi di aggiungere meritatamente, spiccato il volo verso la roccia dell’infinito (e so che in questo momento, da buon partenopeo, sta leggendo fregando a più non posso un cornetto). Così, mentre Mare Fuori si prepara al suo esordio a stelle e strisce il 17 ottobre, Giacomo, archiviata l’esperienza al Lido, è pronto per la Festa del Cinema di Roma, con il terzo capitolo di Diabolik dei Manetti Bros ma, sopratutto, si prepara a portare nelle nostre case una storia di dolore, di omertà e di ingiustizia (a cui dedicheremo uno spazio apposito nei prossimi giorni) interpretando Luciano Claps in Per Elisa-Il caso Claps (in arrivo su Rai 1 il 24 ottobre).

Lo incontriamo al XXXV Salone Internazionale del Libro di Torino, dove, in un’uggiosa serata di maggio, dà voce assieme a Vincenzo Ferrera e a Nicolò Galasso ai personaggi del libro di Michele Zatta (capostruttura di Rai Fiction) “Forse un altro”, edito da Arkadia. Il libro racconta la storia di Mike Raft (soffermatevi un attimino su questo nome,….avete capito?), che teme di aver perso la sua ultima chance e decide quindi di buttarsi dalla finestra del quarto piano di un palazzo; nulla rispetto a ciò che gli accadrà successivamente perché, quella di Mike Raft, in fondo è una storia d’amore.

La mattina successiva Giacomo Giorgio si presenta a sorpresa allo stand della casa editrice. Arriva poco dopo l’apertura, quando l’afflusso è ridotto a qualche giornalista, a chi ama la poca confusione e agli addetti ai lavori. Man mano che il padiglione Oval prende vita, l’interesse discreto per quel ragazzo, inizia a essere percepibile. Qualche adoloscente lo riconosce e finge casuali passaggi davanti allo stand per osservarlo da vicino, alcuni lo scrutano da lontano; ma pochi trovano il coraggio di avvicinarsi per chiedere una foto. Alcuni scatti con Zatta e gli agenti letterari di Arkadia e poi è giunta l’ora di congedarsi, borsone in spalla, verso una nuova meta.

Mezz’ora dopo ricevo un What’s Up: “Eccoci. Chiama quando vuoi”, così trovo un angolino della terrazza dell’Oval semi-tranquillo, mi siedo sulla moquette blu e inizia questo viaggio in cui le riflessioni mai superficiali o scontate di Giacomo Giorgio, che meriterebbero di essere un interrotto flusso di coscienza, si scontrano con l’instabilità della recezione telefonica tipica dei viaggi in treno, dando vita alle tipiche situazioni paradossali in cui cade la linea, “poi mi dà occupato perché chiami anche tu”, l’ultima cosa che ho sentito è stata… ma Michele Zatta ce lo dice proprio all’inizio di Forse un altro: Capitolo Primo. In cui capita che le cose non vanno mai come ci si aspetta… e mi verebbe da aggiungere: … e meno male.

Iniziamo parlando proprio del libro che lo ha portato a Torino, di quel Mike Raft che sembra raccontare, per quanto possa sembrare assurdo, una storia che suona molto familiare. “Avere tra le mani Mike Raft vuol dire avere tra le mani un personaggio che è tutti quanti noi. E’ un personaggio che riesce ad essere tridimensionale, a tratti pirandelliano a tratti shakespiriano perché tratta argomenti filosofici con autoironia. Mike Raft siamo tutti noi lettori in diverse fasi della nostra vita, un uomo che ha a che fare con gli stessi personaggi con cui ognuno di noi si scontra quotidianamente: la morte, la vita, il destino e l’amore.” Dopo questo salto nel vuoto, Mike si trova davanti al suo primo compagno di viaggio. Si tratta di una donna tra i quaranta e i cinquanta che indossa abiti vecchi e sgualciti, l’aspetto trasandato e i capelli arruffati; la sua Vita. Se la Vita di Giacomo Giorgio si materializzasse, invece, “avrebbe le sembianze di un cavaliere”. Quando nel limbo Mike si trova a dover decidere se varcare la soglia della porta di sinistra scrivendo la parola fine o se darsi una seconda opportunità, varcare quella di destra e tornare indietro, Vita e Morte si sfidano a suon di colpi proibiti mostrando a Mike diversi scenari per tirare acqua al proprio mulino. Leggendolo mi sono trovata a mettere la mia vita sul piatto della bilancia e a trarne diverse conclusioni rivelatrici; Giacomo invece non ha bisogno di pensarci, ha le idee molto chiare: “un’immagine legata al passato quindi un dolce ricordo, l’immagine di una persona perciò una persona per la quale tutte le mattine mi sveglio e un’immagine legata alla possibilità perciò il sogno che porto avanti da quando ero bambino” garantirebbero alla Vita la vittoria assicurata. E la morte? “Non ci sarebbero immagini in grado di convincermi a scegliere la porta di sinistra. Certo, quella che Mike ha di fronte è la domanda perpetua; essere o non essere, lo ha detto Shakespeare molto tempo fa; ma, alla fine, la risposta è essere, nonostante tutto e nonostante qualsiasi tipo di avversità. Il dolore è necessario. La vita è bella ma a tratti può essere terrificante. Nonostante nel mio caso la morte non troverebbe carte da giocarsi, credo però che in generale la cosa importante sia che sia presente una possibilità di scelta, sempre, sia nel diritto di vivere, sia nel diritto di morire. Entrambe le scelte hanno ugualmente lo stesso peso e lo stesso valore. L’importante è la libertà di tutti.” Il romanzo Forse un altro ci ricorda anche l’importanza delle promesse che facciamo e ci facciamo e sono quelle che, ogni tanto, ci impediscono di mollare. “Mi è capitato di farmi una promessa. In momenti molto complessi in cui magari avrei voluto cambiare direzione ho sentito il peso di questa promessa così, quasi come fosse un fioretto, ho mantenuto fede ad essa.” Se un giorno questo romanzo nato per il teatro ma con le “potenzialità per diventare un grande film”, arrivasse in sala, avrebbe già trovato il suo Mike.

Nel frattempo, Giacomo Giorgio arriverà nelle case italiane su Rai 1, il 24 ottobre con Per Elisa- Il caso Claps, una mini serie firmata, ancora una volta, da Michele Zatta per la regia di Marco Pontecorvo. Quello di Elisa Claps è uno dei casi di cronaca nera più dibattuti. Elisa Claps esce di casa per andare a messa in un’assolata domenica mattina del settembre 1993 a Potenza. Da quel momento nessuno avrà più sue notizie, fino al ritrovamento del suo corpo 17 anni dopo, nel sottotetto della chiesa dove era stata vista viva l’ultima volta. Ci vollero anni per far condannare il colpevole. Un ruolo fondamentale perché questo avvenisse è stato svolto dalla famiglia Claps e, soprattutto, da Gildo, fratello maggiore di Elisa, che aveva 24 anni all’epoca della scomparsa della sorella e che nella mini serie avrà il volto di Gianmarco Saurino.Quella che vedremo è la storia dell’ininterrotta battaglia di Gildo Claps e della sua famiglia per fare luce sulla scomparsa di Elisa, assicurare il suo assassino alla giustizia e sul perché la verità sia potuta rimanere oscurata per così tanto tempo. Giacomo Giorgio sarà Luciano Claps, fratello di mezzo di Elisa, diciannovenne al momento della scomparsa della ragazza e che, di ritorno dalla leva obbligatoria, deciderà di entrare in polizia. “Sono onorato di aver avuto la possibilità di raccontare questa storia. Non credo ci sia differenza tra chi come Vincenzo ha vissuto gli anni del ritrovamento e per chi come Gianmarco e me aveva pochi anni o non era ancora nato. Il lavoro dell’attore è lo stesso, sia che si tratti di una storia vera sia che si tratti di una storia inventata; quello che cambia, ovviamente, sono il peso e la responsabilità. Quando hai tra le mani un personaggio vero, io ho avuto la possibilità di conoscere la famiglia Claps, e racconti una storia come questa è molto molto difficile. Per me è stata una grande prova. C’è una responsabilità molto più alta perciò mi sono posto con il massimo dell’umiltà e del rispetto nei confronti di queste persone cercando di seguire il più possibile la verità. Spero di essere stato all’altezza.”

Ma Giacomo Giorgio non è solo serie televisive e grande schermo. Nel 2012 entra a far parte del musical rock Rent (basato sull’opera La Bohème di Giacomo Puccini e vincitore di 4 Tony Awards) di Jonathan Larson al Teatro Comunale Vittorio Emanuele di Benevento sotto la direzione di Enrico Maria Lamanna, nel 2016 porta in scena lo spettacolo teatrale Se cantare mi fai d’amore e, nel 2020, lo ritroviamo sul palcoscenico in Corpus Christi di Terrence Mcnally. Per tanti attori il richiamo del palcoscenico è qualcosa di forte che detta i ritmi di una carriera; ma per quel ragazzo che a 6 anni si innamorava della recitazione nei panni di Pulcinella, “fare l’attore è già di per sé un privilegio” indipendentemente che si stia lavorando davanti a un pubblico o a una macchina da presa. “Certo, in determinati momenti, mi diverte di più fare cinema mentre in altri mi diverte di più fare teatro, ma, in fondo, la cosa essenziale, per me, è riuscire a fare questo mestiere; è questo che mi rende davvero felice. In più, se un soggetto è bello lo è sia al cinema che in televisone che a teatro, e se un attore è bravo lo è sia al cinema che in televisione che a teatro. Non esistono piccoli o grandi ruoli.” E se il soggetto non è bello? “Come diceva un mio vecchio insegnante, anche in un brutto film ci può essere un minuto di cinema. Questo mi ha insegnato a non giudicare assolutamente mai quello che sto facendo; ma di cercare di dare il meglio di me a qualsiasi progetto.”

Giacomo Giorgio affianca al lavoro, fin dalla giovane età, anche una formazione mirata, prima a Milano sotto la guida di Michael Margotta con cui si concentra sul metodo Stanislavskij e, subito dopo, con Francesca De Sapio al Duse International di Roma. E’ proprio grazie a questo approccio legato alla scuola americana che, lavorando in produzioni statunitensi come The Happy Prince, si rende conto della sua forte inclinazione a lavorare con il loro modo di approcciarsi alla recitazione e a un progetto; non trascurando, però, il fatto che generalmente in Italia “facciamo un film con la metà della metà della metà del budget” di una produzione americana “nella metà della metà della metà del tempo”. Ed è proprio quest’ultimo a fare la differenza perché “il poco tempo a disposizione ti costringere a correre e quindi non ti permette di approfondire determinati aspetti. Non è comunque una questione di meglio o peggio. Mi sono proprio reso conto che per me, per gli studi che ho fatto, la metodologia americana è molto soddisfacente, ti permette di dare una resa del 100%. L’ho visto nella recitazione di Colin Firth e di Rupert Everett. Riconosco questa differenza perché in Italia, non essendoci questa cultura di metodo, o comunque essendoci di meno, riusciamo ad essere comunque maestri sotto altri aspetti. Penso ad esempio a Vittorio Gassmann, che è un maestro come nessuno della prosa”. Ma Giacomo Giorgio sogna l’ America (o la Gran Bretagna)? Il realtà il suo sogno prevede una statuetta dorata di 3,6 Kg per la precisione…questo sogno di un Oscar lo rivela con una leggera inclinazione della voce, per togliere qualsiasi dubbio (che comunque non sarebbe mai nato) di presunzione. “Sogno però una carriera alla Mastroianni, ovvero quella di un attore italiano che è riuscito a portare la sua italianità nel mondo, che sia in America, che sia in Francia,…che è riuscito ad arrivare al cuore di queste persone a prescindere da quale continente appartenessero.”

Quando guardiamo un film, molto spesso incontrantiamo dei ruoli che avremmo voluto interpretare e, chi lo segue sui social lo sa, c’è un film di Bertolucci che ha un posto speciale nel cuore di Giacomo così, camminando per le strade di Parigi lo scorso aprile, ha giocato ad essere Paul in Ultimo Tango a Parigi. Poi, oltre a Bill “il macellaio” in Gangs of New York, come ogni ragazzo che è stato bambino, non può mancare il desiderio di vestire il panni del proprio supereroe preferito, anche a costo di una rovinosa caduta dal letto a castello, quindi chi se non il Batman di Christopher Nolan?

Lo abbiamo detto prima, un attore versatile come Giacomo non può non sognare anche di poter portare a teatro alcuni dei ruoli celebri della scena. “Per non dare la risposta banale te ne do una meno banale ma sempre banale. E’ chiaro che quando hai a che fare con grandi autori è sempre un sogno, no?! Però mi piacerebbe portare a teatro il personaggio di Domenico Soriano in Filomena Marturano di De Filippo; ma anche… Macbeth. Non che Amleto sia da meno, però è davvero troppo scontata come risposta. Macbeth è stato probabilmente il mio primo amore come pièce teatrale.”

Ma, al giorno d’oggi, cosa vuol dire davvero fare l’attore? Ecco una riflessione di Giacomo Giorgio che abbracciamo completamente. “Quello dell’attore è un mestiere. In questo momento i cantanti fanno gli attori, i non attori fanno gli attori e non deve essere così, perché è un mestiere, a tutti gli effetti. Si studia per fare questo mestiere e la gente cambia la propria vita per fare questo lavoro. Anche là dove ci può essere un talento naturale, esso va comunque nutrito assieme allo studio perché altrimenti il talento non serve a niente. Sono davvero sconcertato da tutto ciò. C’ è un’altra cosa che, ultimamente, ho trovato destabilizzante e che vivo quotidianamente sulla mia pelle. Paradossalmente, quando mi fermano per scattare fotografie etc., sono molto più gentili, attenti e autentici i bambini e i giovani adolescenti che i loro genitori. Ciò mi invoglia ancora di più a proseguire la mia carriera.” In questa riflessione si nasconde la fatidica domanda: perché fai l’attore? “Ecco, fare l’attore per se stessi, per un proprio bisogno di comunicare o di gloria non basta. Bisogna farlo per un bene sociale, per il mondo. Quello dell’attore è il mestiere più antico del mondo non per caso; ma perché un essere umano va a teatro, va al cinema e guarda un altro essere umano e impara ad essere umano. Impara a dire io sono come lui, io vorrei essere come lui, io non sono come lui però imparo da chi sono io, … per questo è il mestiere più antico del mondo e, quindi, tutto quello che vedo nel mondo che mi circonda e che ti ho spiegato mi spinge, sempre di più, a pormi la domanda giusta che poi una domanda non è, ovvero: ok, [l’attore] lo devo fare perché voglio davvero comunicare qualcosa, non per un senso di gloria che tanto poi a un certo punto finisce. Mi meraviglio di come, i grandi poteri di questa macchina meravigliosa che è il cinema, non si rendano conto e permettano questa violenza nei confronti del mestiere dell’attore.”

In fondo, l’attore, ha la responsabilità di essere un “mare fuori” per le persone che vanno al cinema, al teatro, o che accendono la televisione la sera…“La fortuna di avere fatto una serie così di successo è una soltanto, che non è quella di essere fermato dalle persone, di essere acclamato, … ma la possibilità, all’ordine del giorno, di incontrare persone e vivere delle esperienze straordinarie che altrimenti, in una situazione/vita normale non si vivrebbero. Penso, tra i tanti, a uno particolarmente toccante. L’incontro con questo ragazzo cieco che mi dice: ma, secondo te, cos’è il mare, perché io non l’ho mai visto. Ovviamente lì per lì io non ho saputo dare alcun tipo di risposta però, in quell’istante, ho capito qual è l’importanza del mestiere dell’attore. Secondo me l’obiettivo è portare il mare come senso metaforico nella vita delle persone; per chi non l’ha mai visto, per chi non lo può vedere, per chi vive una condizione economica che gli impedisce di poterlo vedere, per chi lo sogna, per chi è oppresso da altre condizioni. Sicuramente il cinema ha un potere enorme. Io stesso, molte volte, quando ero piccolo ho vissuto momenti complicati di vita e mi bastava magari guardare un film per essere, almeno per quelle due ore, un’altra persona. Mi dava coraggio, mi faceva sognare. Tante volte dei grandi film mi hanno influenzato non solo quelle due ore, ma settimane intere o, addirittura, una vita intera. Questo grosso potere del cinema è quello che spero, nel mio piccolo, di riuscire a restituire quando interpreto qualcosa. Ci tengo però a sottolineare che per me, il cinema non può essere educativo. Il cinema è cinema; racconta una storia; poi, puoi raccontare il bene o il male. Ad esempio, per quanto mi riguarda, Mare Fuori non racconta il male assoluto; racconta il bene, il male; racconta che non esiste né un bene né un male, ma che esistono delle persone che nascono in un modo e che in qualche modo, in base all’educazione e al mondo da cui sono circondate crescendo, conducono un certo tipo di vita. Detto ciò, non si dia al cinema un compito educativo e/o sociale perché altrimenti, come è sbagliato Mare Fuori, allora, esagerando e facendo un super paragone ma solo per essere chiaro, è sbagliato Il Padrino, è sbagliato Scareface, è sbagliato Casablanca con Humphrey Bogart che fuma una sigaretta al minuto. La gente ha iniziato a fumare a causa di Humprey Bogart? Ovviamente no; quello è solo un film che si occupa di raccontare una storia; poi sta al pubblico scegliere che cosa comprendere e che cosa portare nella propria vita.”

Essendo in pieno Salone del Libro e avendo notato dagli scatti condivisi sui social la sua passione per la lettura, non possiamo esimerci dal chiedere a Giacomo Giorgio che tipo di lettore è. Ad esempio, se non lo avessimo tenuto per un’ora al telefono per raccontarvi queste righe, che libro gli avrebbe fatto compagnia sul treno? “La biografia autorizzata su Marlon Brando. Mi hanno chiesto l’altro giorno quali sono le cose che più mi piacciono e devo dirti che, ultimamente, purtroppo o per fortuna, leggo tantissime sceneggiature e che quindi ormai la mia lettura è improntata su sceneggiature e pièces teatrali, quindi tanti dialoghi e tante immagini. Al di fuori di questo frangente, le mie letture viaggiano su un filo che le lega; sono tutte storie accumunate da un forte senso di rivalsa, di giustizia, a volte di vendetta,…mi riferisco a Il Conte di Montecristo di Dumas, a Papillon di Henri Charrière, … e non per niente sogno di poter interpretare Batman. Poi ci sono dei classici, capolavori assoluti che ho letto più di una volta perché mi fanno riflettere; ad esempio Il vecchio e il mare di Hemingway che è un autore che amo moltissimo; amo la poesia, in particolare quella di Leopardi. Anche lì, ci sono delle letture che si possono dare a delle poesie o a dei componimenti filosofici, molto diverse da quelle che ci vogliono far credere. Il Sabato del Villaggio, ad esempio, è molto diverso, se lo guardi attentamente da quello che vuole dire; o, ancora più indietro, se vogliamo, l’Edipo Re di Sofocle… ne potremmo parlare per ore, fatto sta che, secondo me, a un certo punto sono stati presi dei capolavori e sono stati completamente storpiati; ma se leggi bene, se rifletti attentamente, puoi scoprire delle cose a cui non avevi pensato. Ora, io non le ho scoperte perché sono un’ entità straordinaria ma perché, facendo l’attore, interpretando e non solo mentalizzando, posso scoprire, proprio a livello sensoriale, percettivo, alcune cose meno immediate. L’Edipo Re, ad esempio fu per me motivo di un grande litigio a scuola mentre frequentavo Lettere e Filosofia perché Edipo Re si acceca quando scopre di aver giaciuto con la propria madre. Per quanto mi riguarda non è vero per niente. Io penso, invece, che Edipo si accechi perché, come qualsiasi essere umano, può solo avvicinarsi e allucinarsi alla porta della verità attraverso l’intelletto, il pensiero, la filosofia; ma non potrà mai sapere la verità. Siccome Edipo Re non ha la certezza che si tratti della madre, arriva da lei e trova davanti a sè la verità, ovvero la donna che lo ha concepito morta e, quindi, a quel punto si acceca perché la verità non è fuori di te ma dentro di te. Anche Narciso è stato demonizzato perché si specchiava, si guardava, si piaceva e, come fosse un peccato, ciò lo portò all’annegamento. Ma non è vero manco per niente, perché la parola narciso deriva da narcotico e lui diventa un fiore narciso, Narciso è un personaggio buono. Gli uomini devo essere narcisi perché essere narciso significa andare alla ricerca di sé, chi sono io? Io chi sono? Se me lo chiedo allora sono in una condizione di narcosi che mi permette di avvicinarmi, più o meno, a capire il mio vero io. Questo, tra l’altro, succede con il cinema e il teatro; ecco perché c’è la sala buia. Quando la sala è buia tu, spettatore, ti ritrovi in questa specie di bolla di condizione di veglia-sonno che non ti permette di percepire il tempo che sta passando e scopri te stesso al cospetto di un film. Narciso è arrivato a noi secondo il mito romano del mi specchio, affogo e muoio, perché diverse culture e religioni non volevano permettere la conoscenza/coscienza di sé. L’augurio che faccio a me stesso e al mondo è: siate narcisi.”. Avrei voluto utilizzare questa frase come titolo; ma per non rischiare, ancora una volta, una lettura semantica errata ho deciso di lasciarvela, all’interno del suo contesto originale, come riflessione finale prima di congedarvi.

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