Storie, verità e rivoluzione: il manifesto di Robin Wright a Monte-Carlo

Robin Wright è arrivata al 64° Festival de la Télévision de Monte-Carlo con la grazia di chi non ha più nulla da dimostrare e con l’umiltà di chi continua a interrogarsi sul proprio mestiere. Accolta con la Ninfa d’Oro alla carriera, ha raccontato come questo riconoscimento non rappresenti solo lei ma l’intera comunità di professionisti che compongono l’industria audiovisiva, dagli attori agli scenografi, dai tecnici al craft service. Stringere tra le mani il simbolo della ninfa per lei significa celebrare l’essenza stessa dello storytelling, un’arte che non appartiene più esclusivamente al cinema; ma che ha trovato nella televisione e nelle piattaforme digitali il terreno più fertile. Con un velo di malinconia ha osservato che il cinema in sala sta lentamente scomparendo, sopraffatto da un pubblico sempre più abituato alla comodità domestica e alle infinite opzioni dello streaming, eppure ha ribadito che la magia della narrazione non si spegnerà mai finché ci saranno storie capaci di illuminare, muovere e far tornare lo spettatore per averne ancora.

Ripensando ai suoi esordi nei primi anni Ottanta, Wright si è definita una bambina spaesata sul set di Santa Barbara, costretta a imparare in fretta a gestire tre telecamere contemporaneamente e a girarsi in tempo al segnale della spia rossa, una vera e propria scuola che le ha insegnato la disciplina del mestiere. Nella sua memoria televisiva da spettatrice restano scolpiti i pomeriggi passati con la madre davanti a I Love Lucy o a Laverne & Shirley, le prime eroine femminili che le fecero intuire il potere comico e sovversivo delle donne sul piccolo schermo. Il salto verso il cinema arrivò con La Storia Fantastica, e poi con Forrest Gump, pellicole che i fan continuano a citare a distanza di decenni. Su quel set con Tom Hanks, ha ricordato, le giornate erano piene di risate al punto da dover interrompere i ciak, e quando si sono ritrovati, anni dopo, per un altro film sembrava non fosse passato un giorno da quel periodo.

Il grande spartiacque, però, è stato House of Cards; la serie che, insieme a I Soprano, ha segnato l’ingresso in una nuova era televisiva. David Fincher, che la convinse ad accettare il ruolo, le spiegò che il futuro era nello streaming e che il pubblico doveva poter scegliere liberamente come “leggere” una serie, proprio come un libro da aprire e chiudere a piacere. Wright, inizialmente restia a tornare alla lunga serialità dopo l’esperienza logorante di Santa Barbara, pose una condizione: poter contribuire alla scrittura del personaggio di Claire Underwood, per evitare di ridursi a semplice ornamento del protagonista maschile. Fu una scelta determinante che la portò a plasmare una delle figure femminili più complesse e spietate della tv contemporanea e che le aprì anche la strada alla regia. A incoraggiarla fu un operatore di macchina con una lunga carriera alle spalle, che le offrì una sorta di corso accelerato di cinema sul set, spiegandole le scelte visive della serie fino a spingerla a dirigere un episodio. Da allora Wright ha continuato a muoversi dietro la macchina da presa, trovando in quella prospettiva un nuovo respiro artistico.

Il successo della serie portò anche alla sua battaglia più nota: quella per la parità salariale con Kevin Spacey. Wright ha raccontato senza filtri le resistenze della produzione, pronta a offrirle compensi aggiuntivi come produttrice o regista pur di non equipararla all’attore protagonista, giustificando la disparità con la mancanza di un Oscar nel suo palmarès. Una logica che lei ha definito assurda e che ha evidenziato quanto l’industria sia ancora governata da parametri maschili e antiquati. La sua denuncia divenne un caso mediatico e aprì un dibattito che continua a essere attuale.

Con la stessa lucidità ha affrontato il tema delle piattaforme e del futuro della televisione: oggi, ha osservato, aprendo un catalogo qualsiasi si trovano soprattutto franchise, supereroi, cartoni animati e blockbuster, perché “questo è ciò che vende”. Ma resta convinta che il segreto per distinguersi sia sempre lo stesso: una buona storia, la capacità di creare personaggi che suscitino emozioni vere, amore, rabbia, empatia o fastidio. Senza quel legame, ha sottolineato, lo spettatore abbandona lo show. Per questo, parlando del suo nuovo progetto The Girlfriend, tratto dal romanzo di Michelle Frances e prodotto da Imaginarium e Amazon, ha insistito sull’importanza della tensione drammatica tra i personaggi, una madre e una fidanzata che si contendono l’affetto di un giovane uomo, interpretato da suo figlio. Un intreccio che nasce da dinamiche universali e che la Wright ha voluto sviluppare non solo come interprete ma anche come regista e co-sviluppatrice del tono visivo e narrativo della serie.

Accanto alla carriera, l’attrice ha ricordato il suo impegno civile e umanitario. Tutto nacque dalla creazione di una linea di pigiami femminili che avrebbe dovuto finanziare progetti a sostegno delle donne congolesi, vittime di stupri di massa legati allo sfruttamento delle miniere di minerali destinati all’industria tecnologica. Davanti all’inerzia della politica americana, Wright ha scelto di agire direttamente e con orgoglio; ha raccontato di aver visto molte di quelle donne, un tempo lungodegenti in ospedale, diventare oggi dottoresse e avvocate grazie al sostegno ricevuto. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente e che ha rafforzato la sua convinzione che la sua voce, come artista e come donna, debba avere un peso al di là del set.

Il rapporto con la maternità è emerso più volte durante l’incontro, con autoironia e tenerezza. Alla domanda sul suo più grande traguardo personale, ha risposto che il fatto che i suoi figli siano ancora vivi è il risultato di cui va più fiera. Eppure, proprio quell’esperienza di madre, torna anche nelle sue scelte artistiche, come dimostra The Girlfriend, dove difende un figlio dagli amori sbagliati, incarnando quella possessività che spera di non avere nella vita reale.

Non sono mancati aneddoti e riflessioni sulla fine di House of Cards, decisa da lei con l’idea che fosse Claire a porre fine alla vicenda di Doug Stamper per pietà e per amore verso Frank Underwood, un epilogo che suscitò reazioni contrastanti tra i fan. Né è mancata una riflessione sull’intelligenza artificiale, che Wright considera una risorsa preziosa in ambito medico ma un pericolo concreto per il lavoro creativo, perché incapace di replicare l’emozione nello sguardo umano e la risonanza autentica di un attore.

Tra ricordi di set, riflessioni sull’industria e nuove sfide, l’incontro con Robin Wright a Monte-Carlo ha restituito il ritratto di un’artista completa, consapevole delle conquiste e delle ferite di una carriera lunga quarant’anni ma ancora animata dalla stessa curiosità di quella ragazza spaesata a Santa Barbara. Una donna che ha saputo reinventarsi come attrice, regista e attivista, e che continua a credere che la vera rivoluzione, in ogni tempo e su ogni piattaforma, stia sempre nella forza di una storia ben raccontata.

📷: Pascal Le Segretain/Getty Images

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