L’uomo che piangeva da mostro: Jacob Elordi nel Frankenstein di Guillermo Del Toro

C’è un momento, quei dieci secondi in cui si spengono le luci e cala quel silenzio che rende assordante il suono del battito accelerato dall’attesa. Lo schermo si illumina e inizia la vertigine. E’ in quell’istante, in cui lo spettatore sta ancora trattenendo il respiro, che sullo schermo appare Jacob Elordi, la Creatura di Guillermo Del Toro.  Non c’è spazio per l’icona stereotipata del mostro verde con bulloni al collo: ciò che emerge è un corpo che cerca disperatamente un posto nel mondo, proprio come lo stesso attore ha confessato a Venezia; “Frankenstein sono io: le mie mie debolezze, il mio sentirmi escluso, tutto ciò che ho vissuto”.


Elordi porta con sé una fisicità architettonica; ma il regista ha la capacità di renderlo vulnerabile incrinandolo e piegandolo…fino a trasformarlo in qualcosa di fragile come vetro. La Creatura di Del Toro è imponente, ma il suo sguardo non inganna, racchiude il tremore di un bambino, l’attesa di un abbraccio negato; non è un attore che “finge” di essere un mostro; è un uomo che si lascia possedere dal fantasma di ciò che non ha mai avuto: la possibilità di sentirsi amato.

Stratificazioni di trucco e protesi così imponenti da rendere difficile perfino comunicare con le persone al suo fianco in sala trucco, contrariamente a quanto sarebbe successo alla maggior parte degli attori, non hanno cancellato le sfumature dell’attore rendendo plastica la sua interpretazione. Elordi trova un linguaggio nuovo: quello del corpo. Il modo in cui si piega, il ritmo delle sue pause, la curva delle spalle che si incurvano come a voler proteggere un cuore vulnerabile: tutto diventa scrittura scenica. Il corpo non è più un guscio, ma un campo di battaglia dove la vita reclama spazio contro l’abbandono. E in questo tormento del corpo e dell’anima, anche la voce assume un ruolo chiave: roca, spezzata come la Creatura a cui appartiene, quasi riluttante a uscire. Ogni parola è una conquista, un dono strappato al silenzio.

In Frankenstein, il regista messicano trova in Jacob Elordi il suo specchio ideale. La macchina da presa lo accarezza come si farebbe con una reliquia vivente perché, il cuore di quella Creatura è casa del cuore stesso del film. Non c’è estetica che basti senza anima, ce lo ha insegnato Re Giorgio (Armani) che l’Italia, il mondo e il Festival hanno pianto pochi giorni dopo la prima di Frankenstein; e in questa pellicola l’anima la porta tutta Elordi: nel suo dolore, nella sua grazia, nella sua disperata richiesta d’ascolto.

C’è una sequenza, che resterà nel cuore dello spettatore, in cui la Creatura tende la mano verso il suo Creatore. Un gesto semplice che porta il peso della condizione umana; l’indice di Adamo che cerca la mano di Dio, la sete di riconoscimento, la ferita di chi si scopre non voluto, non amato ma sopraffatto dall’invincibile speranza di essere visto. In sala, quel momento ha avuto la forza di un’invocazione universale. Un mito letterario che abbandona la sua impronta gotica per diventare la fotografia intima di ciò che significa nascere fragili.

Quando sul volto della Creatura scivola una lacrima, lo spettatore non vede il trucco e le protesi cinematografiche, ma riconosce il volto nudo di un uomo, e con lui piange, perché in quell’istante la finzione si dissolve. Elordi prende per mano il pubblico e, nella sua “mostruosità”, lo accompagna oltre il cinema verso un’esperienza di vulnerabilità condivisa.

Alla fine della proiezione, gli applausi hanno inondato la sala come uno tsunami della durata di oltre 13 minuti. Ma ciò che resta è l’immagine di Elordi che non incatena l’emozione e, proprio come la sua Creatura, non riesce a trattenere le lacrime. Sul red carpet aveva portato la statura di una star; sullo schermo e in sala, ha consegnato invece l’intimità di un uomo che si lascia spezzare. Questo è il miracolo: non trasformarsi in icona, ma permettere agli altri di riconoscersi nella propria ferita.

Per Elordi, con Del Toro avviene il salto: non più il corpo idolatrato dei lavori precedenti; bensì un corpo negato, maledetto, creato per errore. È come se tutta la sua carriera finora fosse stata una preparazione a questo ruolo, che gli consente di liberarsi dai cliché e di mostrarsi per quello che è realmente: un attore che non teme di farsi vulnerabile. Elordi, a soli ventisette anni, nel Frankenstein di Del Toro non è più maschera, diventa ferita.

La pellicola di Del Toro ci ricorda che non c’è orrore più grande della solitudine; Jacob Elordi incarna questo orrore con una purezza che raramente si incontra sullo schermo; ha dato alla Creatura una voce che non avrà più bisogno di parole, un corpo che non avrà più bisogno di spiegazioni. Il vero segreto della sua performance è renderci consapevoli del fatto che il mostro non è altro che il riflesso di ciò che siamo e che, se abbiamo pianto insieme a lui, è perché in quelle lacrime abbiamo riconosciuto le nostre.



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