Di fronte all’impossibile io credo di aver avuto coraggio: E’ questa la vita che sognavo da bambino?

Si è chiusa, con una tappa sold out fuori programma a Ventimiglia, la tournée teatrale di Luca Argentero nello spettacolo diretto da Edoardo LeoE’ questa la vita che sognavo da bambino?”

Quali sono gli ingredienti del coraggio? Come raccontare il coraggio? Questo si chiede Luca, neo quarantenne di Torino. Beh, decide di farlo raccontando la storia di tre personaggi dello sport; che, in fondo, sono tre sfumature dello stesso Luca. Sul palco, il protagonista, affronta un monologo lungo 100 minuti solo con l’aiuto di una bicicletta, di alcune foto (in bianco e nero e a colori); un podio di plastica trasparente e una corda che funge sia da cordata alpina che da paletto di slalom.

Il primo è Luisin Malabrocca, “l’inventore” della Maglia Nera, il ciclista che nel primo Giro d’Italia dopo la guerra si accorse, per caso, che arrivare ultimo in un’ Italia devastata come quella del ’46, faceva simpatia alla gente: riceveva salami, formaggi e olio come regali di solidarietà; così aveva fatto dell’ultimo posto la sua missione, tra escamotage più o meno brillanti. Originario di Tortona aveva iniziato a pedalare per avere prova che l’acqua del mare fosse diversa da quella del fiume perché salata. Così, non la sua bici da viaggio, aveva raggiunto la Liguria per poi tornare in Piemonte con quella conferma. Per Luca, Malabrocca, è la testimonianza che “per arrivare sul gradino più alto del podio della vita, non sempre serve vincere”.

E’ poi il turno di Alberto Tomba, il campione olimpico che ha fermato il Festival di Sanremo con le sue vittorie. Il padre di Luca Argentero è maestro di sci e, sullo schermo, viene proiettata la prima foto di Luca con gli sci, a 22 mesi. Per un teenager cresciuto su quelle due assi di legno, quell’insolito sciatore bolognese, soprannominato dai compagni di squadra l’Africano per quelle origini emiliane uniche in quello sport, Tomba la Bomba, con la sua leggerezza nella vita e la sua aggressività sulla pista; con la sua follia e irriverenza, era un mix di mito e proibito, genio e sregolatezza. Lui, che era diventato Alberto il Re dell’Alberta vincendo l’oro olimpico in Canada fermando l’edizione del Festival del 1988  (che Massimo Ranieri vincerà con Perdere l’Amore); che aveva fatto si che i professori del liceo torinese frequentato da Luca fermassero le lezioni per seguire le imprese di quell’uomo che a Bormio, nel 1995, aveva gareggiato nell’ultima gara di stagione in maglietta e pantaloncini gialli (e cravatta) come il pettorale del leader; era anche l’uomo che, sempre nel ’95 in Alta Badia, aveva colpito il fotografo con cui aveva un conto aperto lanciandogli la coppa di cristallo sul naso.  Tomba, però, è anche l’uomo che ha salutato, pochi giorni dopo aver detto addio a nonna Medea, l’amica più cara; quella polvere bianca e fredda che era stata casa sua per una vita, spalmandola sul viso perché si confondesse con le lacrime.

L’ultimo capitolo, forse quello che sta più a cuore a Luca, è quello dedicato a Walter Bonatti: l’alpinista che dopo aver superato incredibili sfide con la roccia, il clima e la montagna, arrivato a oltre ottomila metri d’altezza, quasi sulla cima di una delle montagne più difficili da scalare del mondo, il K2, scoprì a sue spese che la minaccia più grande per l’uomo, è l’uomo stesso. Sul dizionario, la definizione di alpinismo è: disciplina che si basa sul superamento delle difficoltà incontrate durante la salita di una montagna (pendio e/o parete). L’alpinismo è uno sport in cui la morte ti cammina a fianco fino alla vetta. Bonatti ha conosciuto la bontà e la cattiveria delle vette, la difficoltà delle salite e le bellezze delle linee: dal Gran Cappuccino delle Alpi Graie al Monte Rosa, passando per il K2 per terminare raggiungendo la Croce del Cervino d’inverno. Sul K2, nella notte tra il 30 e il 31 luglio del 1954, Bonatti era destinato a morire ed è sempre stato consapevole che, il fatto di essere sopravvissuto, lo doveva solo a se stesso. Sul K2, Bonatti conobbe l’infamia dell’uomo; lui che aveva vissuto la guerra in prima persona conoscendo però solo la cattiveria dell’uomo; mai l’infamia. La verità sul K2 verrà riconosciuta dal mondo nel 1994; ma lo stato italiano l’accetterà solo nel 2004; Bonatti, che amava respirare l’aria pura della montagna, deciderà di lasciare parlare gli altri della puzza dell’impresa italiana sul K2. Argentero, grande appassionato di montagna, aveva già parlato del suo amore per l’alpinismo, che ti costringe a focalizzare testa e corpo solo ed esclusivamente su il passo successivo, dimenticandoti di tutto il resto, durante il festival piemontese Collisioni di Barolo la scorsa estate. A chi gli chiede perché uno sport come l’alpinismo; Luca ama rispondere con una delle citazioni più toccanti di Bonatti: “Perché io mi sento più vicino a Dio su una montagna che in una chiesa.”

Qual è, dunque, la vita che Luca Argentero sognava da bambino? “Tutti abbiamo un’impresa da realizzare, piccola o grande che sia, che ci toglie il sonno.” Davanti alla casa in cui viveva Luca da bambino, c’è una discesa in cemento che, dopo pochi metri, termina con una curva a gomito che gli è già costata alcune cicatrici sparse per il corpo. Luca vuole affrontarla (e batterla) con lo skateboard: “Ci penso dal 12 aprile 1978 e, un giorno, io quella discesa la farò”; sullo sfondo, una foto, lo ritrae sorridente, a 40 anni, sul suo skateboard su quella discesa.

Sono sicura che, chi era presente allo spettacolo al Teatro Comunale di Ventimiglia, abbia sognato di poter riassaporare la straordinaria performance di Luca Argentero senza le decine e decine di flash provenienti dagli smartphone di chi, senza alcun rispetto per il teatro, l’attore e i presenti; nella totale indifferenza dello staff di sala, ha trascorso 100 minuti chattando su WhatsApp e scattando foto a un attore che, forse, avrebbe dovuto pretendere un po’ di rispetto per quella meravigliosa storia intima e toccante.

“Un errore non è mai un errore, finché non l’hai commesso.”

 

 

 

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