Il 14 agosto 1976, i NAP mettono in atto un attentato al vicequestore di Roma Alfonso Noce. Il figlio Claudio Noce, oggi regista, ha poco più di un anno; ma il fratello, sui dieci anni, assiste alla scena. Nell’attentato, in cui secondo i giornali dell’epoca vengono sparati oltre 50 colpi, rimangono uccisi l’agente Prisco Palumbo, raggiunto da un colpo alla tempia e il terrorista Martino Zichittella.
In Padrenostro, Claudio Noce racconta la storia di Valerio Le Rose (uno straordinario Mattia Garaci), un bambino di 10 anni che assiste, nell’inconsapevolezza degli adulti, all’attentato ai danni del padre Alfonso Le Rose (un immenso Pierfrancesco Favino, a cui va la meritatissima Coppa Volpi).
La pellicola di Claudio Noce è “una lettera ai padri di quella generazione finalmente spedita”, una lettera fatta di memoria non storica ma soggettiva. La storia, quella vera e propria, quella degli anni di piombo, resta in secondo piano: un pezzo di telegiornale, qualche ritaglio di giornale, l’attentato delle Brigate Rosse ai danni di Francesco Coco (Antonio Gerardi) nel giugno del 1976, una rivendicazione telefonica, … E’ Valerio il perno attorno a cui ruota la storia. Quel ragazzino che, come tutti quelli di quell’epoca, è abituato a fare tutto da solo: giocare, parlare e, sopratutto, soffrire; è lui a raccontarci un mondo fatto di telefonate sussurrate e porte chiuse a chiave, un mondo di adulti che esisteva solo quando i bambini erano a letto, un mondo che lui ha imparato ad osservare, non solo dietro la lente di una cinepresa; è lui a raccontarci cosa è successo, disegnando la scena con i gessetti sull’asfalto e costringendo gli adulti ad accorgersi della sua presenza. Valerio è un giovane Holden della fine degli anni ’70 che è costretto a passare dall’infanzia all’adolescenza senza poter esprimere le sue paure, ma potendo contare solo sull’amicizia con Christian (un meraviglioso Francesco Gheghi). Ma chi è Christian? Chi è questo ragazzo così diverso da Valerio, anche fisicamente i due ragazzi sono agli antipodi, comparso dal nulla, che sembra avere la capacità di apparire e scomparire a comando? Christian è reale o è solo frutto dell’immaginazione di Valerio? O, ancora, è materializzazione di quella sofferenza che ha segnato i figli di una generazione, indipendentemente dalla fazione ai cui appartenevano i loro padri, un Sante Pollastri e Costante Girardengo del nuovo secolo?
Padrenostro è un film ricco di dolore privato, che spesso lascia troppo spazio all’affetto dei ricordi, rendendolo leggermente ridondante. Noce gioca sulla costruzione di un pathos verso qualcosa di tragico che viene continuamente rimandato e che non accade mai perdendo, così, nell’ultima mezz’ora, l’attenzione di buona parte del pubblico; ma è anche una pellicola curata minuziosamente nei dettagli: dal Carosello in TV all’immancabile giradischi; dalla fotografia ricca di seppia e rosso nella scena dei gessetti alle musiche che accompagnano i momenti salienti. Padrenostro è uno di quei film che ti impedisce di alzarti durante i titoli di coda, ma che ti lascia immobile sulla poltrona della sala a riflettere, come, anche al cinema, ogni tanto è giusto fare.
Nel discorso nel ritirare la Coppa Volpi, Pierfrancesco Favino ha detto: “Quando si gira un film è come se nascesse una stella e noi viviamo su quella stella per mesi, ne nutriamo l’energia e il caos, poi la lasciamo e la sua luce si propaga nello spazio fino a posarsi sugli schermi qualche tempo dopo perché qualcun’altro possa vederla e nei suoi occhi continui a brillare.” E Padrenostro è una di quelle stelle che illuminerà migliaia di occhi nel buio.
Padrenostro, nelle sale dal 24 settembre.