“Questo è uno spettacolo riparatore, un po’ come i matrimoni di una volta”; è così che Isa (una straordinaria Isabella Ragonese) ci introduce nella vita di una donna di 40 anni, una psicoterapeuta che cerca di fare pace con il passato, con quella ragazzina di 16 anni che rimpiange di essere stata sorda al grido di aiuto di una madre messa al tappeto dalla vita.
Quanti di noi, da piccoli, hanno assistito impotenti ai drammi degli adulti amati? Quanti avrebbero voluto intervenire? Aiutare, capire, salvarli; ma erano piccoli, per lo più impotenti di fronte a quella loro infelicità. Intuivano, non sapevano, sospettavano…c’era sempre quel genitore che andava a dormire presto, senza passare a dare la buona notte, c’era il rumore dei piatti che si rompevano, il suono soffocato dei singhiozzi.
Ora, però, Isa quel dolore lo capisce e ne ha fatto un lavoro. Certo, non è facile conviverci, soprattutto al giorno d’oggi in cui le sedute si fanno anche via Skype e non hai via di scampo: non ti è permesso concentrarti sulle cuciture irregolari del tappeto o sulla crepa dell’intonaco. No, sei costretto a rimanere immobile, davanti allo schermo, “45 minuti a faccia a faccia con il dolore dell’altro” senza mai sentirti all’altezza di quel dolore.
A 16 anni, Isa non ha risposto a quella telefonata. Si è fatta trovare sorda a quella richiesta di aiuto e oggi, a 40 anni, la stessa età che aveva sua madre allora, continua a tormentarsi chiedendosi che cosa mai avrà avuto da fare di così importante a 16 anni da non poter rispondere. Nasce da quel senso di colpa la sua fobia per le chiamate perse, per quei “numeri rossi che sono come una lettera scarlatta”, che la porta a rispondere a tutti, a qualsiasi ora del giorno e della notte; rendendosi conto che ciò porta i suoi pazienti ad aproffittarsene, incapace però di cambiare questa situazione perché, in fondo, “l’essere umano è sempre in ascolto, anche quando non lo sa”.
Il palco è spoglio: una parete bianca con una porta, anch’essa bianca. Su un lato, un tavolino da campeggio con due sedie pieghevoli. Sul tavolino un pacchetto di sigarette, un posacere e un portatile incollato alla superficie. Isabella Ragonese entra in scena da fondo palco, tailleur carta zucchero e tacco medio alto. Stringe la valigetta in pelle consumata al petto, “alla Vincenzo Malinconico”. Strizza l’occhio e parla al pubblico in sala, lasciando anche il numero a cui contattarla data questa sua deformazione professionale che la porta a rispondere a qualsiasi ora.
La voce della Ragonese, registrata, ci guida lentamente all’interno della storia. Dietro la porta un rumore di trapano che batte in testa: è la proiezione della madre di Isa che è impegnata a costruire una finestra. Per i primi 45 minuti non vediamo questa donna: ne sentiamo la voce, la immaginiamo attraverso i ricordi e le parole di Isa; ma Isabella Ragonese è sola sul palco, messa a nudo davanti a un teatro completamente sold out e la sua performance non tradisce le aspettative. Un atto unico scritto su misura per una delle migliori attrici italiane che fa dono al pubblico della sua bravura attraverso una storia in cui tutti possono riconoscersi. Poco dopo la figura di questa donna si materializza… in un primo momento solo una mano che compare da dietro la porta e che la figlia accarezza, prendendosene cura come sta cercando di fare con quella donna che non la lascia entrare in camera da letto perché la melanconia è contagiosa, come tutti gli stati d’animo. Poi, eccola muoversi confusamente sulla scena alla ricerca di una padella. Interpretata dall’attrice Emilia Verginelli, ha l’aspetto quasi bambinesco di una giovane madre che sembra persa in un suo mondo: sacchetto di plastica in testa, sacco di patate in mano e impermeabile beige chiede alla figlia perché la gente, se vede una donna con un sacchetto di plastica in testa e un sacco di patate subito la prende per pazza. L’outfit indossatto dalla Verginelli non è casuale, rispecchia l’ultimo preciso ricordo che Isa ha di sua madre, un giorno in cui, appena uscita da fare la piega, anche il cielo si era preso gioco di lei e l’acqua aveva iniziato a scendere copiosamente. Pochi attimi e poi scompare nuovamente dietro la porta bianca e Isa deve fare i conti con la verità: “la vita non è rilegabile, non la puoi ricomporre come un libro scompaginato” è arrivato il momento di lasciare il passato al passato, le pagine del tempo non si possono scombinare e c’è sempre un momento preciso in cui le persone si rompono.
Isa entra nella stanza. Dietro la parete bianca, una videocamera riflette la sua immagine così che sia visibile al pubblico; intuizione visiva utilizzata più volte durante lo spettacolo per sottolineare e per dare il giusto peso ai momenti di autoanalisi, di investimento su di sé. La voce della madre è ancora presente; ma la finestra a cui lavorava è finita, pronta a lasciare uscire, con l’aiuto della corrente proveniente dalla porta, tutto il senso di colpa di Isa.
Dove ci troviamo? In un aldiqua o in un aldilà? “Ogni di qua è il di là di qualcos’altro” risponde la madre a Isa. Poi, il silenzio, … nessuna voce risponde più ad Isa che, affaccita alla finestra, si lascia alle spalle il passato buttandolo fuori nel fumo di una sigaretta; perché “nel passato non c’è nessuno. Ci sono le voci crepate, i rimpianti, il dolore, …” ma non c’è nessuno.
“Il tempo in cui c’era l’altro è passato e fa paura perché, senza l’altro, come si fa?”












