C’è un mare che non restituisce solo relitti, ma anche domande. Rose of Nevada di Mark Jenkin si apre con il misterioso riapprodo in porto di una nave scomparsa (che porta inciso a poppa il titolo del film), come se il tempo avesse deciso di piegarsi su sé stesso. In questa cornice sospesa compaiono due figure: George MacKay (Nick) e Callum Turner (Liam). Non sono eroi, non sono leggende, ma uomini intrappolati in un destino che non hanno scelto e che per Liam, è sinonimo di occasione mentre per Nick, di punizione. Sarà proprio il loro dialogo silenzioso a guidare lo spettatore dentro il cuore misterioso del film.
George MacKay interpreta un uomo che cerca di opporsi all’assurdo. Lo fa con un linguaggio fatto di sottrazioni: lo sguardo abbassato, i gesti esitanti, il respiro trattenuto. In un’opera che si muove come un incubo a occhi aperti, lui diventa bussola emotiva, il punto fermo che ancora ci tiene ancorati alla realtà. La sua fragilità è ostinata, quasi dolorosa: vorrebbe restare nel presente, ma sente che il mare lo reclama, come un Ulisse chiamato dalle Sirene.
Accanto a lui, Callum Turner offre un contrappunto di sorprendente intensità. Dove MacKay si torce nella resistenza, Turner sembra abbandonarsi. La sua recitazione ha un respiro più fluido, più istintivo: come se il suo personaggio accettasse il paradosso temporale senza troppe domande; ma come una seconda occasione. Se MacKay è l’uomo che lotta per non perdersi, Turner è colui che scivola dolcemente in una nuova appartenenza.
Questa differenza non è contrasto sterile, ma motore emotivo del film. È nella tensione tra i due corpi: uno rigido, l’altro flessibile che Rose of Nevada trova la sua vibrazione più profonda.
Sullo sfondo, un mistero che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino ai titoli di coda, in attesa di qualcosa che…
Il regista incastona Liam e Nick come figure speculari: MacKay e Turner camminano lungo le stesse strade, affrontano gli stessi sguardi, respirano lo stesso vento salmastro. Ma l’uno rappresenta il desiderio di tornare, l’altro l’accettazione di restare. È un duetto interpretativo che non cerca mai di rubarsi la scena: la forza sta proprio nel loro equilibrio, come due voci in un canto marino che vibra di nostalgia e di mistero.
E quella frase ridondante, “non ti sei mai perdonato”. Una sentenza che sia Jenkin che MacKay hanno preferito non approfondire; ma a cui Turner, al termine della proiezione, ha dato un senso ben preciso: “La magia del cinema è che ognuno di noi, ha la sua storia a cui far riferimento, ognuno di noi, in quel momento ha pensato al proprio non-perdono e non sarebbe giusto rovinare questa magia dando qui ed ora un significato preciso e dettagliato che, probabilmente, appartiene sono a me”.
George MacKay, ha costruito una carriera in cui la vulnerabilità è stata sempre al centro. Dai primi lavori, penso a Private Peaceful di Michael Morpurgo, a Bypass di Duane Hopkins, o, ancora, a 11.22.63; alla performance teatrale all’Old Vic di Londra in The Caretaker, o ai più recenti 1917 e True History of the Kelly Gang. MacKay ha incarnato figure che affrontano limiti invisibili e conflitti interiori. La sua è una recitazione scavata, quasi ascetica, che in Rose of Nevada trova un’ulteriore maturazione: non più la corsa verso un obiettivo, ma la resistenza all’inevitabile.
Callum Turner, ha spesso attraversato personaggi sospesi tra fascino e inquietudine, dalla sensualità oscura di Queen & Country alla solidità in saghe più commerciali. Qui trova un ruolo che gli permette di mescolare magnetismo e abbandono, rendendo il suo personaggio specchio e controcanto a quello di MacKay.
Insieme, i due attori costruiscono un dualismo che rispecchia due possibili risposte alla stessa domanda: fronteggiare l’assurdo o lasciarsi sommergere da esso.
Rose of Nevada è un film che non offre soluzioni, ma riflessi. MacKay e Turner, con le loro presenze opposte e complementari, incarnano l’essenza stessa della storia: il conflitto tra chi cerca di mantenere la rotta e chi accetta di perdersi. Non ci sono vincitori, non ci sono scelte giuste o sbagliate, non ci sono eroi. Ci sono solo due uomini, due interpretazioni che respirano all’unisono, due volti che ci ricordano che il tempo non si vince: si abita, si subisce e, a volte, lo si abbraccia.
























