Finché Galera Non Ci Separi

capovilla

“La poesia deve avere in sé qualcosa che è barbaro, immenso e selvaggio” scriveva intorno alla metà del ‘700 il filosofo francese Denis Diderot, ed è difficile immaginare qualcosa di più barbaro, immenso e selvaggio di ciò che affiora nel nuovo lavoro di Pierpaolo Capovilla (membro storico di band come One Dimensional Man, Buñuel e Il Teatro Degli Orrori).

Che Capovilla non fosse succube delle logiche del mainstream lo sapevamo da tempo, e tuttavia il nuovo lavoro stupisce per la sua estraneità alla produzione discografica italiana. Con l’album “Finché Galera Non Ci Separi” il cantante recita i testi di Emidio Paolucci, poeta e detenuto italiano, trascinando l’ascoltatore tra le mura del carcere di Pescara, dentro cui l’autore sta scontando la sua pena.

Per portare a termine l’impresa Pierpaolo si affida nuovamente al talento del compositore Paki Zennaro, con cui già aveva collaborato in occasione della scrittura dell’album solista “Obtorto Collo” e delle letture in musica di brani di Pasolini e Artaud (a partire dal quale aveva narrato il dramma del manicomio, dando vita al progetto “Interiezioni”). È proprio sulle orme di quest’ultimo lavoro che prende forma la  narrazione di “Finché Galera Non Ci Separi”,  tante infatti sono le similitudini tra questi due diversi inferni: il desiderio di tenere lontano dalla vista della società tutto ciò che è scandaloso, vergognoso e indegno; la vendetta della collettività che prende il sopravvento sulla necessità di rieducare, scopo originario dell’istituzione carceraria e punto cardine della nostra Costituzione. La prigione diventa così una fabbrica di delinquenza nella quale, a detta dello stesso Paolucci, “entrai giovanissimo, fui messo in mezzo a un branco di lupi; per non essere sopraffatto, mi feci lupo anch’io, entrai nel branco”. Coerente con il filo rosso che lega il manicomio al carcere è poi il tema degli psicofarmaci (a cui Il Teatro Degli Orrori aveva dedicato anche la canzone “Benzodiazepina”, inclusa nell’album omonimo del 2015), che vengono distribuiti a pioggia sui detenuti come risposta a tutti i tipi di carenze.

La poesia di Emidio affonda dunque le radici in questo terreno, e similmente a quella ginestra che Leopardi faceva crescere anche nel deserto più inospitale, sopravvive alla desolazione che la circonda e raggiunge lo spettatore come un pugno nello stomaco. Adriano Sofri diceva del carcere che esso “non è ancora la morte, benché non sia più la vita”, ma nonostante ciò di vita in questo album ce n’è davvero tanta, e travolge l’ascoltatore al quale è impossibile restare indifferente al dramma umano che prende forma nelle tracce che compongono il disco.

La voce evocativa, al contempo profonda e spigolosa, di Pierpaolo Capovilla si muove sulle musiche scarne di Zennaro, che ricorrendo a pochi strumenti acustici dipinge atmosfere rarefatte e minimali con evidenti influenze jazz. Il suono tormentato della parlata del narratore, plasmata da infiniti pacchetti di sigarette, ci riporta in alcuni istanti ai dischi di Tom Waits, che insieme all’amico Bukowski fu tra i primi a tralasciare la Storia con la “S” maiuscola per preferirle quell’altra, con  la “s” minuscola, scritta dai reietti e dai miserabili. L’album che ne risulta (venduto insieme al libretto abbellito dalle illustrazioni originali di Andrea Chiesi) è una denuncia potente di ciò che è l’inferno del carcere in Italia, ad oggi università del crimine per molti piccoli delinquenti e troppo lontano dall’essere quel particolare ospedale auspicato da Gandhi, in cui tutti i detenuti potessero essere trattati come pazienti.

“Finchè Galera Non Ci Separi” è la seconda fatica letteraria di Emidio Paolucci, che segue il libro “Senza Speranza E Senza Disperazione” uscito nel 2016, e vede la luce grazie alla sensibilità e alla costante volontà politica del cantante Pierpaolo Capovilla, che negli anni passati, parallelamente all’attività musicale, ci aveva abituato alle letture pubbliche dei testi di Pasolini, Artaud e Majakovskij (quest’ultimo dà anche il titolo a una delle canzoni del disco manifesto del Teatro Degli Orrori “A Sangue Freddo” – e se non lo avete mai ascoltato provvedete subito!-).

Capovilla ribadisce ancora una volta di essere uno degli artisti più politici del nostro tempo, e conferma le parole che pronunciò qualche anno fa in occasione di un’intervista al Manifesto:  “mi piace l’idea di poter approfittare del mio piccolo successo per fare politica sul serio anche se, in realtà, la faccio innanzitutto con le mie canzoni. Se scrivessi testi avulsi dal mondo che conosco sentirei inutile me stesso e il mio lavoro, e a quel punto farei un altro mestiere”.

In un tempo in cui tutto ciò che è politico e socialmente impegnato appare noioso e coperto da una insopportabile patina di polvere e vecchiume (anche all’estero, escluso l’inossidabile Roger Waters, il mondo artistico non sembra dare grossi segni di vita da questo punto di vista -e se qualcuno mi dice che i discorsi da Oscar in salsa MeToo&FuckTrump sono Politica metto mano alla pistola-) Capovilla ci ricorda di come “chi alla penna e chi al cannone” (per citare l’amato Majakovskij) tutti sono chiamati a fare la propria parte. In un momento come questo ci trascina giù dalla giostra e ci sbatte in faccia una realtà che forse preferiremmo continuare a ignorare, perché riconoscerla costringe a riflessioni che precludono rapide conclusioni. L’edonismo e il menefreghismo del tempo che abitiamo probabilmente alla fine avranno la meglio, e forse quella di Pierpaolo Capovilla si sarà confermata l’ennesima guerra contro i mulini a vento, ma lui, da moderno Don Chisciotte, non dà segno di voler scendere da cavallo. E a pensarci bene viene voglia di abbracciarlo!

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