“Tanto tuonò che piovve”. Alla fine è arrivata! Dopo anni di annunci, falsi allarmi, teorie del complotto e profezie Maya, la nostra pandemia ha smesso di fare la preziosa e si è concessa a noi, trascinandoci nel disordine e recludendoci in casa, alla stregua di ergastolani Netflix-muniti.
Se però è vero che la clausura può mettere in difficoltà il nostro sistema nervoso, è altrettanto vero che un po’ di buona musica può consentirci di rilasciare la quantità di endorfine necessaria per affrontare la giornata.
Tra i vecchi vinili da rispolverare in questi giorni particolari una menzione speciale la merita senza dubbio Let It Be, l’ultimo album realizzato dai Beatles, che proprio in questo bizzarro 2020 spegne cinquanta candeline. Il capitolo finale della saga Beatles, che originariamente doveva intitolarsi Get Back, vede infatti la luce l’8 maggio del 1970.
Esso doveva rappresentare per il quartetto di Liverpool una sorta di ritorno alle origini: un disco registrato interamente in presa diretta (sullo stile di Please Please Me, del 1963), lasciando da parte la gran quantità di sovraincisioni ed effetti elettronici che aveva caratterizzato gli ultimi anni della band.
La serenità e spensieratezza che affiorano da Let It Be sono in realtà molto lontane da quella che era l’atmosfera tra i quattro verso la fine degli anni sessanta: John, ormai dipendente tanto dall’eroina quanto dalla nuova moglie Yoko Ono, pareva disinteressato al destino della band e George Harrison faticava sempre più a celare il malumore e la frustrazione per la scarsa considerazione che il duo Lennon-McCartney sembrava dimostrare nei confronti delle sue creazioni (alcune di esse, inspiegabilmente cestinate dai colleghi, arricchiranno All Things Must Pass, il suo primo notevole album solista, pubblicato nel medesimo anno).
Alla tastiera compare l’indimenticato Billy Preston, musicista statunitense la cui presenza in studio contribuirà ad allentare le tensioni tra i componenti della band, permettendo, seppure tra mille peripezie, la conclusione del progetto.
Il disco verrà prodotto dall’eccentrico (ci piacciono gli eufemismi) Phil Spector, che con grande maestria mise mano ad un lavoro incoerente e disordinato, tagliando, cucendo ed aggiungendo cori ed archi, fino ad ottenere l’album che noi oggi conosciamo (un esempio esplicativo: il frammento di 50 secondi che costituisce Dig It, preso da uno lungo 12 minuti, è l’unica traccia che rimane delle infinite jam session dei quattro in fase di scrittura). Il lavoro di Phil non incontrò però il favore di Paul McCartney, che pare andò su tutte le furie quando sentì il prodotto finale (voci dicono che tenne il broncio fino a quando, nel novembre 2003, venne pubblicata la versione originale delle loro registrazioni con il titolo di Let It Be… Naked).
Un ascolto particolare riservatelo alla traccia da cui l’album prenderà il nome definitivo (curiosità: la canzone Let It Be, poiché pareva non soddisfare nessuno dei membri della band, fu inizialmente proposta alla cantante Aretha Franklin) e alla struggente Across The Universe, che nell’opinione di Lennon fu il testo più bello mai scritto da lui, e che costituisce una delle gemme più preziose dell’intera discografia Beatle.
Quando il disco arrivò sugli scaffali dei negozi, l’8 maggio del 1970, i litigi interni avevano già portato allo scioglimento della band, di cui Let It Be costituisce il canto del cigno. Quel tanto travagliato album mise fine alla carriera della più straordinaria e influente band del ventesimo secolo, e rende a noi, cinquant’anni dopo, un po’ più dolce il restare chiusi in casa in attesa che la tempesta passi.